di Grazia Ingravalle
Che?? Quear? Queer significa cuoio! Queer? Tir?
È inglese! Cioè? Sigla di?
Bo, non si capisce niente! Uomo-uomo, donna-donna!
Mischiati? Molto bello, ne ho sentito parlare!
Mah, in questo momento sono un po’ confusa!
Queste alcune delle risposte – e degli interrogativi – alla domanda “Che cosa significa queer?”. Tra le espressioni disorientate ed incuriosite degli intervistati per le strade di Bari, tra le inflessioni più o meno marcate, lo spot del Bari Queer Festival (Bari, 1-4 dicembre – http://www.bariqueerfestival.org) ci introduce alle visioni sperimentali e inaspettate del cinema queer da tutto il mondo. Ma che significa queer? Pur in un territorio, quello barese, finora solo sporadicamente attraversato dalle pratiche e dalle istanze del movimento queer, il termine pare sortire inaspettatamente l’effetto sperato e sintetizzare le reazioni raccolte. Da un’originaria accezione negativa – in cui assume il significato di “strano”, “deviante”, “incomprensibile”, “abietto” – esso viene usurpato dal movimento lgbt (lesbico-gay-bisessuale-transgender) e conquistato ad una “risignificazione” positiva, lì dove ciò che si esalta è proprio l’imprevedibilità e l’indefinibilità del soggetto che se ne appropria. Judith Butler, una delle filosofe più influenti nell’elaborazione del movimento queer, nel suo Corpi che contano ci consente di superare quella distinzione cara al movimento femminista a partire dagli anni 70’ tra sesso (sex) e genere (gender), in cui il “sesso” definirebbe fisiologicamente il corpo su cui va innestandosi l’identità di genere, risultato delle mediazioni di ordine linguistico, culturale, sociale, economico, etnico e religioso. Ebbene, Butler entra nel vivo di questa distinzione sempre premessa e afferma che non esiste alcuna “superficie” corporea naturale, alcuna “pagina bianca” su cui sia incisa la divisione dei generi e dei ruoli; dunque la differenza sessuale non sarebbe un dato originario ma il prodotto anch’esso dalle pratiche discorsive del potere. Si pensi a titolo di esempio al sesso del bambino prima della nascita: a farci caso, è proprio una pratica discorsiva (supportata dalla tecnica), che consente ai genitori di annunciare dopo l’ecografia il sesso del nascituro, dando di lì in avanti il via ad un’interminabile liturgia dalle tinte a contrasto – rosa vs. azzurro – fatta di doni, nomi, giochi, comportamenti e abiti, un corredo che a partire dalla nominazione del sesso andrà ad avvolgere il corpo in maniera sempre più inscindibile. Ed ecco che il Bari Queer Festival ci offre con il film inaugurale A Soap (En Soap, Pernille Fischer Christensen 2006) i corpi di Charlotte e Vanessa, stretti in un’inaspettata relazione di cura, affetto, complicità e attrazione. Abbandonatosi al movimento narrativo ed al suo incedere tra avanzamenti ed esitazioni, molto presto lo spettatore smetterà di cercare una cornice identitaria in cui poter circoscrivere i desideri di Charlotte e il progetto di cambiamento di sesso di Vanessa. Quando Charlotte dice di non poter amare Vanessa perché non si può amare uno che va in giro con una parrucca e che ha deciso di farselo tagliare, lo spettatore vive e condivide tutta l’amarezza di quel rifiuto sull’uscio della porta dell’appartamento di Charlotte. Ed ancora, le labbra dello spettatore rimangono sospese con quelle esitanti di Vanessa, anticipando il controcampo del viso di Charlotte, quando lei (Vanessa) le dichiara di aver vissuto un corpo che non le piaceva, che voleva cambiare fino al loro casuale incontro. Lo sguardo, il corpo, la pelle dello spettatore sono lo sfiorarsi di Charlotte e Vanessa, occupano lo spazio variabile che le separa e talvolta le avvicina. Lo spettatore assume, identificandosi ora con questo ora con quel personaggio, tutte le identità, vive ogni desiderio, per abdicare in fine al compito definitorio e abbandonarsi ad un’esperienza sinestetica eccedente, indefinibile ed imprevista, autenticamente queer.